mercoledì 31 gennaio 2007

Strani Incontri, ovvero il Signor Luigi

Oggi pomeriggio, ore dodici circa, ambulatorio pubblico del mio quartiere. Faccio il mio ingresso in sala d'attesa e mi sento male nel vedere che davanti a me ci sono ben diciotto persone che attendono il loro quarto d'ora d'attenzione da parte di un medico iperaffaticato dal superlavoro cui è di sicuro sottoposto. Si dice che un vero medico curi e rassicuri, ma a giudicare dalla ressa mi rendo conto che sarò fortunato se questo avrà il tempo di guardarmi in faccia. Ad ogni modo, non c'è nessun sistema all'italiana di evitare la lunga attesa nel deserto dei tartari, così mi accomodo e tiro fuori un libro per studiare e cercare di non buttare via tutto quel tempo prezioso.
Circa un'ora dopo provo la sensazione di essere osservato. Mi volto e mi accorgo che l'uomo accanto a me, un signore sulla settantina con un basco a quadretti calato sul capo, mi guarda fisso, è evidente che ha voglia di parlare. Gli sorrido, e comincia la tiritera di commenti sul tempo, "non ci sono più le mezze stagioni", sul governo, "sono tutti uguali, tutti ladri, sono finiti i tempi di Pertini", inevitabilmente sulla Fiat, visto che siamo a Torino, "cul fio l'ava da fa al sioumen, atar che al diretur d'la fabrica" (traduzione: quel ragazzo, non so se si riferisse a Lapo oppure a John Elkann, avrebbe dovuto fare lo showman e non il direttore di una fabbrica), poi finiamo al calcio. Grande sorpresa: siamo entrambi juventini, entrambi piuttosto appassionati. Dopo i commenti di rito sull'apparente incapacità della nuova dirigenza in merito di calcio-mercato, un paio di doverosi elogi ad Alex Del Piero e a Gigi Buffon ed un breve cenno al triste pareggio di sabato scorso, ci spostiamo su di un tema piuttosto scottante per ogni tifoso della Vecchia Signora: Calciopoli, o meglio, Moggiopoli. A quel punto, il signore alza decisamente il tono ed infervorato esclama "Ma quale corruzione e corruzione! Dodici anni non si cancellano! Onore e gloria alla Triade!". Mi ricordo di aver letto la stessa frase su di uno striscione in curva all'inizio del'infame anno nella serie cadetta. Pur rimpiangendo io stesso l'acume del "buon" Luciano negli acquisti, mi permetto di fargli notare che quello che Moggi e Giraudo hanno fatto dovrebbe essere una vergogna per ogni appassionato di calcio, che in quel modo si perde lo spirito dello sport e che guardare una partita truccata non è poi così appassionante. Sarà pur vero che non agiva da solo, che anche Milan e Inter avranno avuto il loro ruolo, ma il fatto che solo la Juve sia stata scoperta non rende la colpa meno grave, e giusta è la punizione. Sdegnato, il signore, che nel frattempo ho scoperto chiamarsi Luigi, mi dice che io non sono un vero tifoso, che dovrei cambiare squadra se è così che la penso, e sta per cominciare un'invettiva che immagino non raggiungerà alti livelli di lirica poetica quando viene chiamato dall'infermiera, finalmente è il suo turno. Leggermente perplesso, torno al mio libro.
Intorno alle sedici, in effetti non troppo rassicurato, mi avvio ad un'altro ambulatorio per prenotare alcuni esami, e non oso pensare alla nuova attesa che di sicuro mi toccherà. Incredibilmente, giunto a destinazione (proprio vero che tutto il mondo è paese) qualche posizione davanti a me c'è il signor Luigi, che concitato discute con una donna lì accanto. La parole "Triade" si distingue più volte nell'aria.

In cosa tutto questo può interessare al malcapitato che legge questo post? Lungi dal desiderio di rendere edotto suddetto malcapitato su come ho trascorso il pomeriggio, la questione focale è la riflessione che l'incontro con il signor Luigi mi ha suggerito a proposito dei miti moderni.
Una volta, c'erano idoli ed ideali per i quali tutti erano pronti ad immolarsi, Gesù Cristo, Che Guevara, la libertà o l'indipendenza della propria patria, un amore cavalleresco, il desiderio di un ordine sociale superiore. Giusti o sbagliati che fossero, davano la forza di lottare, il coraggio di mutare in azioni i propri pensieri. Oggi, non saremmo pronti ad alzarci dalla nostra poltrona nemmeno per difendere i nostri genitori o figli, figurarsi combattere perchè i fondamentali diritti del'uomo sono violati, di fronte a noi oppure in qualche angolo sperduto del mondo.
Il signor Luigi, pur accalorandosi per un mito a mio parere fasullo, pur difendendo un'indifendibile, era lì che proteggeva di nuovo con le unghie e con i denti la propria fede. Lui ha qualcosa che oggi è scomparso fra i più: un cuore che batte per un ideale ritenuto superiore, non importa se si tratta solo di calcio. E' stato bello, per una volta, incontrare un uomo che ancora sa vivere di passione.

martedì 30 gennaio 2007

Oggi mi sono svegliato ed ho pensato che fosse una giornata assolutamente perfetta. C'era il sole a Torino, e seppur gelida l'aria era limpida come se fosse agosto inoltrato. Da lontano, si vedeva la collina con le case minuscole e le strade grigie che sembravano rughe.
Oggi era una giornata perfetta perchè avevo in programma di tornare a casa, dopo cinque interminabili mesi di lontananza, ma si sa che le cose non vanno mai come le si desidera, e con la valigia in mano ho dovuto abbandonare il mio progetto, e l'idea della famiglia riunita e del giardino di casa, lo stereotipo del fuoco accesso e del gatto sulle ginocchia che in effetti non sono poi così lontani dalla realtà, sono svaniti.
Pazienza, mi sono detto, la strada è sempre là. Tornerò dopo gli esami. Mestamente ma con serenità mi avviavo a casa, passeggiando per godere del sole e non stiparmi nell'assembramento di un tram nelle prime ore del pomeriggio, quando ho visto una donna sulla soglia di casa, che puliva alacremente con la scopa alla mano, il che non è uno spettacolo frequente nel centro urbano.Era una donna di proporzioni più che massicce, con un consunto abito a fiorami e capelli arruffati, il viso consumato.
Mi sono chiesto cosa pensasse, mentre spazzava la soglia della sua casa in mezzo a tante altre case, se qualcuno l'avesse mai amata davvero, se qualcuno l'avesse mai fatta sentire una donna. Probabilmente mi sono lasciato trascinare dal suo aspetto, ma anche l'espressione era insoddisfatta ed arrabbiata col mondo. Per un momento avrei voluto avvicinarmi ed abbracciarla, nonostante il suo aspetto fosse disordinato e sporco, e dirle che m'interessavano i suoi pensieri, sapere per quale motivo si alzasse ogni mattina ed accertami che non si sentisse sola perchè io l'avrei ricordata. Volevo proprio rassicurarla, ma era un'idea folle, lo so bene, dove vivo un sorriso per strada è considerato un gesto profano.
Non mi accade così spesso,non due volte in una settimana, e non ci sono abituato, ma, arrivato alla casetta di città, mi sono sentito molto triste, per quella donna e chissà cos'altro.

lunedì 22 gennaio 2007

Ci sono momenti di tristezza assoluta e profonda, in cui rivolgere lo sguardo in avanti è troppo faticoso, e non si trova la forza di porsi domande. Forse dovremmo avere più fiducia, giacchè è dal dubbio che arrivano le risposte. Anche avere fiducia, tuttavia, richiede grande impegno. Non a tutti i problemi c'è una soluzione.

lunedì 15 gennaio 2007

Una frase

Una frase è composta di poche parole, è piccola piccola, ma capita che l'impronta che lascia sia invece grande e profonda.
Oggi ho sentito un uomo che ammiro dire che "se non si va a letto alla fine di una giornata con le ossa rotte dalla fatica ed il cuore che batte forte, vuol dire che c'è qualcosa che si sarebbe potuto fare e non si è fatto, e che non si è vissuto abbastanza".
Spero da domani di avere la forza di capire quanto sia prezioso ogni attimo del tempo che mi è concesso.

sabato 13 gennaio 2007

Che dire.. questo è l'inizio, l'anno zero. Di che cosa? Ma di una condivisione globale, è chiaro. E se ci chiediamo se sia giusto, se sia etico rendere pubblici i propri pensieri in modo incontrollato, l'unica risposta possibile è che "non c'è cosa buona o cattiva che non sia stato il pensiero a rendere tale." Vorrei che queste parole fossero mie, ma, disgraziatamente, non lo sono.

Se qualcuno è capitato qui, non posso che accoglierlo con calore.

A te che leggi, benvenuto a casa mia, benvenuto nella mia testa. Spero che da questo nasca qualcosa di buono. Per ora non c'è altro, ma torna presto, avrò qualcosa di meglio per te.

venerdì 12 gennaio 2007

vi racconto casa mia


Il quartiere si chiama Borgo S.S., e merita di essere raccontato perché in esso c’è vita come non ne ho mai vista altrove.
Il nome di S.S. è quello della chiesa più importante della zona, dedicata ad un santo che non molti ricordano. San Salvatore, nella vita, non ebbe mai fortuna, e dopo la morte dei genitori lavorò come calzolaio per mantenere la sorella più giovane senza mai perdersi d’animo. Mai nome fu più adatto a descrivere un luogo.Il cuore pulsante di S.S. è la stazione, delimitata da quattro imponenti arterie di traffico ma anche, talvolta, di sangue, che sono le principali vie di transito della città. E’ situata in uno splendido edificio ottocentesco, con imponenti facciate che un tempo devono avere avuto colori chiari e freschi ed ora sono ingrigite e stanche, forse per i fumi che le hanno rese opache e sporche, forse, come credo, per il peso di tutta la vita che ogni giorno, in tanti anni, è scivolata attraverso di loro, un gravìo di sofferenze e speranze troppo spesso disilluse che nemmeno loro, tanto grandi e forti, hanno potuto sopportare. In stazione c’è sempre movimento, un infinito viavai di persone che corrono, camminano, passeggiano, alcune con una meta, altre con il disperato desiderio di averne una, lo stesso consueto spettacolo che si osserva in un luogo di passaggio di una qualsiasi grande città come la mia. Ad ogni passo qualcuno chiede, con sguardo spento e colmo di risentimento, elemosina e carità, dice di aver perduto il portafogli e di dover tornare a casa, e chi ascolta sa che non è la verità, vivere da queste parti insegna a trovare in un solo sguardo le risposte che occorrono, ma l’espressione del viso e la bramosia negli occhi, l’obbligo di adempire a necessità che, se disattese, possono costare la vita, sono dettagli che non sfuggono ad un occhio attento, e alla fine si concede lo stesso quanto si può, perché qualcosa, nel tono implorante di quella richiesta, rende chiaro che una sola moneta in quella mano tesa varrebbe molto di più che in una tasca polverosa ed in buona compagnia; c’è poi chi, più fortunato, cerca con impegno di vendere qualcosa, un paio d’occhiali, una borsa fasulla oppure un quadretto fatto a mano, e ci sono le famiglie con bambini e valigie e borse di plastica rattoppate, ed i forestieri che non sanno dove andare e chiedono indicazioni su quel treno o quel tram, c’è chi parla troppo ed infine c’è chi non ha più voce, le ombre nascoste, le anime straziate
.Sono loro l’anima del mio quartiere. La sua particolare architettura romana di grandi vie unite da stretti budelli nascosti a sguardi inesperti ne fa un perfetto rifugio dove scappare quando alla stazione la situazione si fa difficile, oppure di notte, quando è deserta. Due corsi enormi, un fiume ed un parco delimitano questa piccola zone franca, un dedalo di viuzze che s’incrociano, e che, anche se sono quasi tutte parallele, sembrano sempre cambiare di posto per confondere un forestiero, e quando scende la sera s’incrociano e si scambiano di posto senza farsi scoprire e rendono difficile trovare la strada di casa. Il mio quartiere si trova nella Repubblica, ma non è Italia, gli italiani sono spariti, a poco a poco, hanno venduto le loro case, avevano paura forse, non capivano più l’anima perduta della loro terra, di questa piccola fettina di città. Pochi sopravvivono, qui, ma degni di nota. Uno di loro si chiama Ennio, ed è il titolare di una libreria incastrata a fatica tra una bottega di stoffe ed un fruttivendolo, il sostentamento del corpo affiancato da quello dello spirito, una vetrina che non è più trasparente da tempo, un occhio cieco su scaffali e scaffali colmi di parole, fantasie, ideali. Da cinquant’anni fa il libraio, ha visto due guerre, ha avuto una moglie, cinque figli, e non si è mai mosso da lì, sempre a vendere i suoi libri mentre i suoi capelli diventavano bianchi. “Io non sono un commerciante” ripete spesso “Io non vendo semplicemente cose. Quello che mi passa tra le mani dà assuefazione, scalda, porta sangue al cuore. Io sono uno spacciatore di sogni.“ Siamo diventati amici, un acquisto dopo l’altro, ogni tanto mi offre un caffè, ed a volte mi racconta dei suoi libri preferiti, pagine di carta che ha amato come linfa, parole di cui ha vissuto, guide cui ha permesso di orientare ogni giorno i suoi passi. Jane Austen, Utopia, le Città Invisibili, sono solo alcune delle tante voci che hanno popolato la sua lunga vita. Lui non ha paura degli stranieri che ora vivono qui, e mi assicura che le paure sono solo fantasie, che la gente può essere crudele, è vero, ma i pregiudizi lo sono molto di più, e non si può che credere ad un uomo che ha fatto la guerra, il disertore e poi il partigiano, che ha rischiato la vita per difendere i propri principi e la propria patria, perché se non è così che si dimostra amore per la propria terra, se non è un uomo del genere a conoscere la vita, allora nessun altro ne può sapere qualcosa.
Solo loro, gli stranieri, che danno vita alle strade ed alle vie. Nel mio quartiere ci sono un milione di colori, suoni e profumi, ci sono mediorientali, centrafricani, indiani, cinesi ed europei dell’est, ed ognuno ha dato il suo personale contributo, con un negozio, con un abito, un’acconciatura, un nuovo accento. Per la strada, tra le finestre, nei cortili fulminati dal sole, si sente un vocio ininterrotto di mille lingue diverse, quelle dai toni alti ed accesi e quelle flautate che sembrano una musica, i dialetti, ed in tutto questo anche l’italiano un po’ stentato ed un po’ cantilenato di chi impara senza desiderio perché non può amare un paese che si rifiuta di accoglierlo.Qui il commesso dell’esistenza srotola in suo più ampio campionario, ci sono operai, venditori ambulanti, medici, immigrati illegali e docenti universitari, ci sono i market cinesi o marocchini, le pizzerie, i venditori di kebab, i sexi-shop e le aule dell’università e le case degli studenti, c’è un posto per tutti, qui, è la città che non ha posto per il quartiere, per loro, per noi che non vogliamo scappare.Avah è la mia vicina di pianerottolo. E’ nigeriana, ha ventisette anni e tre bambini che non vede da due. Assiste un uomo anziano che vive in collina, e di notte fa le pulizie in un supermercato e manda ogni centesimo che guadagna alla sua famiglia perché vuole che i suoi bambini possano frequentare la scuola. Non dorme mai, ma ha trovato il tempo di insegnare alle mie coinquiline a preparare le specialità deliziose della sua terra, il tè profumato e le spezie dai colori caldi. Da allora, un po’ di S.S. è entrata in casa mia.
Casa mia. Anche lei vive da queste parti, e vi giuro che ne è felice, ed anche se le sue sorelle che stanno in precollina o dalle parti di Via Roma sembrano molto più curate, non vorrebbe fare scambio per nulla al mondo. Noi le vogliamo bene. L’anno scorso abbiamo ridipinto le sue pareti con colori brillanti, ed ora sembra un uccello esotico strappato dalla sua foresta tropicale, ma ha trovato la sua vera identità, in linea con il condominio, dove, per le scale, sembra un po’ di essere a Rabat ed un po’ sulla Luna di Astolfo, quella delle Cose Dimenticate e Perdute, con l’androne dove nei giorni di mercato il vento porta foglie di lattuga verdi e carta colorata, con l’albero cui sono appese foglie d’alluminio che luccicano al sole. I muri esterni sono un po’ scrostati, è vero, ed i balconi sembrano cadenti, ma quando si avvicina Natale, sul pianerottolo, con Avah e le due famiglie con cui condividiamo il nostro piccolo angolo di mondo, si allineano i tavoli e si cena insieme, Avah prepara il cous-cous, noi portiamo il panettone e Adriana e Tomasz che sono rumeni preparano dei dolci deliziosi, mezza albicocca con intorno zucchero e pastafrolla, il paradiso dei sensi.
Di mattina si sente il profumo del caffè, del pollo arrosto del mercato, dello smog e del fiume che non è così lontano. Il mio quartiere è un crogiuolo che ribolle di profumi e storie.
Tuttavia, non è finita qui. Nel mio quartiere ci sono anche i criminali, i ladri, gli spacciatori, le prostitute ingannate e disperate, e talvolta ci sono anche gli assassini. Di notte non è raro vedere qualcuno confabulare in un anfratto, mani che febbrili passano un pacchetto da tasca a tasca, giovani e meno giovani sdraiati a terra, lo sguardo spento, l’orizzonte che si è avvicinato troppo ormai perché si possa ancora chiamare futuro, e ci sono ragazzi che fumano erba per le strade, perché non è che la polizia passi molto spesso da queste parti.Senza giustificare chi infrange la legge, vivere qui fa scoprire che esistono due specie di criminali, quelli che scelgono questa strada perché redditizia, facile, comoda e veloce, perché per questo “lavoro” non si deve faticare, e quelli che hanno la paura negli occhi e la colpa nel cuore, ma nessuno dei due può zittire la fame.
Quando c’è il sole, a S.S., si cammina sotto i portici, i ladri e gli studenti, chi è onesto e chi non lo è, chi si è appena alzato e chi va a dormire, e c’è chi passa di qui per necessità e cammina in fretta, le mani strette spasmodicamente su borsette e tasche posteriori, ma chi vive da queste parti quando c’è sole li vede, i sorrisi impercettibili, e ricambia di cuore, con un senso d’appartenenza a questo microcosmo che dalla città è stato generato, che la guarda negli occhi, e ancora no, ancora non la ama né è riamato, ma che altro si può fare se non vivere nella convinzione che la storia vada sempre avanti, ed insieme con essa la mentalità comune? Camminando ogni giorno, osservando chi passa accanto con un poco di poesia, ci si rende conto che ogni vita è straordinaria, che ognuno meriterebbe di essere raccontato. Io non ho ancora finito di scoprire.